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Il mare che inquieta, il mare che chiama. Diario di una crociera tra Mediterraneo e Atlantico a bordo di Celebrity Equinox 11 – 20 settembre 2025

Chiedo permesso e mi imbarco anche io! Bellissime queste prime pagine 😊
Mi manca "la nave" e grazie a te mi sembra davvero di essere a bordo: soprattutto quando descrivi il momento "tutto tuo" della corsetta "con il mare che si apre intorno"... bellissimo... anche io la vivo esattamente così.
Tanta la curiosità per una compagnia che mi ha da sempre ispirato ma che poi non ho mai provato.
Grazie!
 
Chiedo il permesso anch'io di salire a bordo ☺️
Grazie per questo diario, ottimo inizio, fa proprio venir voglia di continuare a leggere...
Un abbraccio al vostro piccolo crocierista ed attendiamo il resto 😉
 

13 settembre 2025 – Cadice, “Chiarore salato”


“Tutto ciò che il mare, la città, il giorno hanno di misterioso, lo porto negli occhi e nell’anima.”
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

Cadice ci accoglie con la sua luce inconfondibile, quel “chiarore salato” che sembra quasi sospeso tra l’Atlantico e il Mediterraneo. Città marinara per eccellenza, quasi un’isola abbracciata dall’oceano, con secoli di storie intrecciate fra fenici, romani, arabi e castellani: camminare qui è un po’ come sfogliare un libro dalle pagine consunte, dove ogni popolo ha lasciato un segno e ogni strada custodisce un frammento del passato.

Per me, però, Cadice non è solo una città: è anche un ricordo. Molti anni fa, uno dei primi viaggi on the road che ho fatto con quello che oggi è mio marito fu proprio in Andalusia. A Cadice salimmo sulla Torre Tavira e al tramonto ci scattammo una foto sui tetti della città. Eravamo giovani, con lo sguardo rivolto al futuro, e non potevamo immaginare tutto ciò che la vita ci avrebbe riservato. Quella foto è ancora con noi, incorniciata sulla libreria di casa: un frammento di giovinezza e di promesse che oggi, camminando per le stesse strade con nostro figlio, sento ancora vivo.

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La nostra passeggiata di oggi comincia da Plaza San Juan de Dios, ampia e solare, punteggiata da palme, fontane e dalla torre dell’orologio del municipio. Un tempo cuore pulsante degli scambi commerciali con l’India, oggi è una piazza vivace, circondata da caffè e ristoranti.

Da lì ci spostiamo verso la Iglesia de Santo Domingo, ma scopriamo che la troveremo chiusa: apre solo dalle 18.30 alle 21. L’orario insolito lascia un po’ di dispiacere, perché mi sarebbe piaciuto rivedere la Vergine del Rosario, patrona della città. Sarà una buona scusa per tornare.

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Il passo successivo ci porta alla Cattedrale, la “Catedral Nueva”, con la sua cupola dorata che domina l’orizzonte. Decidiamo di salire sulla Torre di Ponente: non ci sono gradini, ma una lunga rampa che si snoda lentamente verso l’alto, più impegnativa solo nell’ultima parte. L’attesa è ripagata quando arriviamo sotto la campana: lo sguardo spazia sulla città e sul mare che la circonda da ogni lato. Uno di quei momenti in cui il respiro si fa più lento, perché sai che la memoria custodirà a lungo quel panorama.

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Dopo la discesa ci concediamo una sosta dolce. A Casa Hidalgo assaggiamo le empanadas e poi ci spostiamo per un caffè al Bar Brim, dove ci affacciamo alla caratteristica finestrella verde che dà sul corso. È uno di quei piccoli riti che rendono speciale una giornata di viaggio. Camminando ancora raggiungiamo il mercato e Plaza de las Flores, piena di colori e profumi. Oggi c'è anche un bravo chitarrista che suona. Al mercato non resisto alla tentazione e mi fermo alla Churreria La Guapa. Con un sorriso il signore che vende i churros mi saluta con un “Hola chica!” che mi fa sentire al posto giusto: evidentemente lo sguardo tradiva la mia golosità. E aveva ragione, perché i churros che qui sono grandi e leggermente salati sono irresistibili. Purtroppo non ho foto a testimoniarlo!

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Avremmo poi voluto visitare l’Hospital de Mujeres, ma purtroppo lo troviamo chiuso. Poco più avanti entriamo invece all’Oratorio di San Felipe Neri: qui ci aspetta un dipinto di Murillo che lascia senza parole. La delicatezza dei volti, i colori, la compostezza della scena: un incontro che da solo vale la deviazione.

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Proseguiamo poi verso i Giardini di Alameda, raccolti e ombreggiati, con vasche e fontane, ideali per una pausa fotografica e per godersi un po’ di respiro verde in città. Lì si erge anche un gigantesco ficus centenario, che lascia tutti a bocca aperta. Successivamente attraversiamo il quartiere popolare La Viña, cuore autentico della città, con le sue stradine colorate e l’atmosfera vivace: la Parroquia de Nuestra Señora de la Palma ci ricorda la spiritualità e la tradizione locale, mentre i profumi dei tapas bar invitano a fermarsi e assaggiare qualcosa (ma noi avevamo già abbondantemente dato). Il tempo a disposizione non basta per tutto, ma non importa. Cadice è fatta per essere scoperta a piccoli passi, tra vicoli bianchi, finestre con grate lavorate e scorci di mare che appaiono all’improvviso dietro un angolo. Una città che non si lascia racchiudere in una visita sola, e forse è proprio questo il suo fascino.

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Quando torniamo verso il porto, con le gambe stanche ma gli occhi ancora pieni di luce, sento la dolcezza delle giornate piene: quelle in cui cammini tanto, ma ti sembra di avere solo sfiorato la superficie. Rientriamo a bordo e ci concediamo qualche ora in piscina, tra un tuffo e una pagina di libro, rilassandoci mentre già iniziamo a fantasticare sulla tappa di domani. Perché domani ci aspetta Lisbona, e il solo nome basta a farmi sorridere.
 
Grazie a tutti voi che state seguendo il diario e mi state incoraggiando con i vostri commenti così gentili. Leggere i vostri messaggi è un vero piacere, e sapere che ci siete dall’altra parte mi fa sentire accompagnata mentre racconto. Vorrei anche ricambiare i ringraziamenti: molti di voi hanno scritto diari che io stessa ho seguito con grande interesse, prendendo spunto e suggerimenti preziosi per le nostre crociere. È davvero bello sentirsi parte di questa comunità di viaggiatori appassionati.
 

14 settembre 2025 – Arrivo a Lisbona


“Tutto ciò che vediamo è un’altra cosa. Il mare è sempre il mare, ma non è mai lo stesso mare.”
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

L’alba ci sorprende ancora in nave, con la luce che filtra delicata tra le grandi vetrate del buffet panoramico. La città sul Tago si mostra piano piano: tetti rossi, chiese, torri e il ponte rosso del 25 de Abril che sembra sorvegliare l’ingresso. La colazione diventa quasi un rituale teatrale: tra un waffle e un croissant, il mare e la città si srotolano davanti ai nostri occhi e noi siamo tutti catturati dalla magia del momento.
Mio figlio non riesce a staccare lo sguardo dai tetti e dalle vie che si aprono come un labirinto di storia e fantasia. Con la mano indica scorci immaginari: una “astronavicella” parcheggiata tra i palazzi, un museo-fantascienza simile al MAAT di Belém trasformato nella sua mente in una stazione spaziale piena di robot e luci lampeggianti. Ridiamo insieme, ma è una risata piena di attesa e meraviglia: il senso della partenza, l’incontro tra reale e immaginario, prende forma davanti a noi.

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Mentre la nave scivola sotto il ponte 25 de Abril, Giulio alza lo sguardo e con aria serissima chiede se il comandante abbia controllato bene le misure, perché “non ci passiamo!”. Scoppia una risata generale, e anch’io penso per un attimo che il ponte sembri davvero vicinissimo, quasi a sfiorare le antenne più alte della nave. È quel momento in cui la realtà si colora di un pizzico di fantasia infantile, e ci ritroviamo tutti a guardare verso l’alto trattenendo il fiato, come se davvero fosse in gioco il nostro passaggio.
Proprio allora, un ospite americano seduto poco distante si gira sorridendo e mi dice che questo non è niente in confronto a quando la nave passerà sotto il ponte di Porto, “molto più bello e suggestivo”. Lì per lì sorrido educatamente, ma dentro di me qualcosa non torna: so bene che noi non attraccheremo a Porto, ma a Leixões, che è ben diverso. E poi, anche volendo, mi chiedo come abbia potuto immaginare l’Equinox infilarsi sotto il Ponte Dom Luís I, stretto e sospeso sul Douro come una lama d’acciaio. Ho sorriso tra me e me: gli americani hanno il dono di raccontare tutto con tanta convinzione che per un attimo quasi ci credi… salvo poi renderti conto che nemmeno in un film di Hollywood l’Equinox potrebbe passare sotto il ponte di Porto!

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Poi la vista si allarga e ci troviamo davanti alla Praça do Comércio. La piazza è maestosa, ampia, luminosa, con i suoi edifici storici che sembrano abbracciare il Tago. È impossibile non restare catturati dalla sua grandezza e dalla sensazione di essere al centro di un crocevia di storie, traffici e memorie. Giulio, con quegli occhi spalancati che rivelano la sua eccitazione, esprime il desiderio di salire sull’Arco da Rua Augusta. Siamo felici di acconsentire: la curiosità dei bambini, quella scintilla che illumina il volto, è uno dei grandi piaceri della crociera per noi.

Durante la colazione, io osservo la città come Pessoa l’avrebbe vista: un miscuglio di storia e malinconia, di vicoli stretti e piazze ampie, di tetti rossi e cielo azzurro. Immagino lo scrittore che cammina lungo Rua dos Douradores, che osserva le facciate pombaline, che si perde nei pensieri come un viaggiatore dell’anima prima che del corpo. Ogni angolo sembra raccontare un frammento del suo “libro dell’inquietudine”: le scale di pietra, le finestre ornate, le terrazze con fiori, tutto sembra sospeso tra memoria e sogno. “Lisboa modella se stessa sul suo visitatore”, scrisse Antonio Tabucchi, e stamattina, mentre la nave scivola silenziosa sotto il ponte 25 de Abril, mi pare che Lisbona abbia scelto di mostrarsi proprio così: accogliente, poliedrica, già negli occhi e nell’anima. Non poteva esserci cornice più suggestiva per iniziare il nostro incontro con la città di Pessoa.
 
Scendiamo dalla nave e in pochi minuti siamo già immersi in Alfama, il quartiere più antico e pittoresco di Lisbona. È un labirinto di vicoli, di case bianche con stendini fioriti, di porte verdi che raccontano vite semplici e secolari. Qui il tempo sembra avere un passo diverso, più lento, scandito dal rintocco delle campane e dal rumore delle tazzine di caffè servite nei minuscoli bar. Largo do Chafariz de Dentro ci accoglie con la sua piccola piazza storica: una fontana antica, sedie di ferro battuto, due anziani che chiacchierano guardando il via vai. Poco distante, il Museu do Fado ci ricorda che questo quartiere è il cuore della musica portoghese più struggente, nata proprio tra queste strade. Non entriamo, ma già dall’esterno si respira quell’aria un po’ nostalgica che è parte dell’anima di Lisbona.

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Ci infiliamo in un vicolo stretto, il Beco da Bicha, uno di quei passaggi che sembrano fatti apposta per essere fotografati: panni stesi, azulejos sbrecciati, fiori che spuntano dalle ringhiere. È un’immagine quotidiana, eppure poetica, come se Pessoa stesso avesse trovato qui l’ispirazione per i suoi pensieri erranti.

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“Non so se ho in me la capacità di sentire. O se sento oltre la capacità di me stesso.”
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

Dal Miradouro de Santa Luzia ci siamo lasciati catturare da quel gioco di tetti rossi e azulejos che sembrano sospesi tra il cielo e il Tago. Le bouganville in fiore incorniciano il pergolato, e in mezzo alla folla di turisti c’è un momento quasi privato, quando abbassiamo lo sguardo e lì, tra il labirinto di vicoli, ritroviamo la nostra Equinox: elegante, immobile, come se riposasse un poco dopo averci cullati tutta la notte. È strano, e bellissimo, vedere la propria nave dall’alto: come se la città stessa ti rimandasse un’immagine di casa.

Scendiamo lentamente per i vicoli di Alfama, dove ogni porta racconta una storia. Alcune sono azzurre, altre scrostate e piene di segni del tempo. A me resta negli occhi una porta verde, un colore così intenso da sembrare dipinto di proposito per i fotografi. Giulio, con il suo sguardo curioso, si diverte a immaginare chi viva dietro quelle porte: cantanti di fado che provano al pianoforte, vecchie signore che sfornano pasteis di nata o marinai che rammendano le reti.

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Più avanti, al Miradouro das Portas do Sol, la vista si fa ancora più ampia. Una terrazza ariosa, più moderna, dove le persone si fermano con un caffè in mano e il cellulare puntato all’orizzonte. Anche qui ci sentiamo parte di un quadro vivente: noi, la città, il fiume.
Pochi passi ed eccoci davanti alla Sé, la cattedrale di Lisbona. Imponente, romanica, un po’ severa. Non possiamo entrare oggi perché la domenica resta chiusa, ma già l’esterno ci regala l’impressione di solidità: due torri che sembrano voler tenere in piedi, da sole, tutta la città. Proprio di fronte, la piccola Igreja de Santo António, dedicata al santo patrono, accoglie i visitatori con la sua semplicità. È quasi un contrasto: la grandezza della Sé e l’intimità di questa chiesa.
E lì vicino, una tentazione irresistibile: la Pastelaria Santo António. Ci fermiamo e finalmente assaggiamo i primi pasteis de nata del viaggio, caldi, profumati di cannella, con quella crema gialla che sembra sole racchiuso in un guscio di sfoglia. Giulio ne divora uno in due morsi e ci guarda con un sorriso che vale più di mille descrizioni.

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Il passo si fa più leggero mentre ci avviciniamo a Baixa, e Lisbona cambia volto. Le stradine tortuose lasciano spazio a un disegno razionale, figlio della ricostruzione pombalina dopo il grande terremoto del 1755. Rua Augusta è un viale ampio, quasi scenografico, che si apre come un sipario sulla piazza più maestosa della città: Praça do Comércio. Ed è proprio qui che torna in mente Tabucchi: “Lisboa modella se stessa sul suo visitatore.” Stamattina sembra volerci accogliere nella sua veste più regale, con gli edifici giallo-oro che incorniciano la piazza e il fiume che si allunga, immenso, come un orizzonte aperto. La piazza è talmente ampia che quasi ci perdiamo. Giulio, però, non ha dubbi: con gli occhi che brillano chiede di salire sull’Arco da Rua Augusta. Ridiamo e ci guardiamo: certo che sì. Non si può dire di no a un desiderio che nasce dallo stupore puro. In fondo, è questa la magia del viaggio: lasciarsi guidare, qualche volta, dallo sguardo di un bambino.

La salita sull’Arco da Rua Augusta non è complicata e non c'è coda. L’ascensore ci porta fino in cima, poi una breve scaletta ci conduce sulla terrazza. Lo spazio è piccolo, raccolto, ma la vista è smisurata. Sotto di noi, la geometria perfetta di Praça do Comércio si allarga come un abbraccio; oltre, il Tago brilla alla luce del mattino, e le vele bianche sembrano punti in movimento dentro un quadro. Alle nostre spalle, Rua Augusta scorre dritta fino a Praça da Figueira, un asse che unisce storia, architettura e vita quotidiana. Giulio guarda giù con quell’entusiasmo che contagia. “Sembra un Lego gigante!”, esclama indicando la piazza ordinata, con le persone piccole come figure di un gioco da tavolo. Noi ridiamo, e ci rendiamo conto che, in fondo, non c’è descrizione migliore: Lisbona dall’alto è davvero un mosaico perfetto, fatto di colori, geometrie e dettagli.

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Scendendo dall’arco vorremmo andare al Café Martinho da Arcada ma lo troviamo chiuso. Pessoa sedeva proprio qui, davanti a un caffè, a scrivere frammenti del suo mondo interiore. È emozionante pensare che questi luoghi abbiano ospitato discussioni e riflessioni di scrittori, poeti, viaggiatori.
Da Praça do Comércio ci incamminiamo verso Rua dos Douradores. Per molti è solo una via qualunque, con edifici sobri e lineari, ed oggi anche piuttosto malmessa, ma per chi ha letto il Libro dell’inquietudine diventa una strada mitica: è qui che Pessoa ambienta la vita di Bernardo Soares, il suo semi-eteronimo. Camminando, mi sembra quasi di percepire la sua voce: il senso di straniamento, la solitudine piena di pensieri, l’inquietudine che diventa letteratura.

È un momento strano: la città intorno è rumorosa, piena di vita, eppure dentro di me nasce un silenzio. Forse è questo il paradosso di Lisbona: mentre ti accoglie con la sua luce, ti costringe a guardare dentro di te.

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Dal cuore della Baixa iniziamo la salita verso il Chiado. La pendenza si fa sentire, ma ogni passo è ripagato dalla sensazione di attraversare un quartiere che pulsa di letteratura, caffè e memoria. Il nostro primo incontro è con la Livraria Bertrand: dall’esterno sembra una libreria come tante ed oggi è un luogo prettamente turistico ma per me è impossibile non visitarla. Scaffali di legno, corridoi stretti, la libreria più antica del mondo ancora in attività. Qui Pessoa veniva spesso a comprare libri.
Mentre sfoglio distrattamente un’edizione illustrata di poesie portoghesi, e Giulio ha trovato un albo da colorare in portoghese, penso a come dev’essere stato per Pessoa entrare qui: un uomo solitario che si nutriva di parole come altri di pane. La malinconia passa presto quando Giulio dice “questa libreria è più vecchia dei nonni”, e io mi ritrovo a sorridere. Pessoa, così intimo e complesso, e mio figlio, così diretto e semplice: due mondi che si incontrano, entrambi affamati di storie.

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Pochi passi più in là, eccoci al Caffè A Brasileira. È impossibile non fermarsi, anche solo per la foto accanto alla celebre statua di Pessoa seduto al tavolino. Il bronzo è consumato dalle mani di chi, come noi, si appoggia per uno scatto. La facciata in stile liberty, le vetrine con specchi e lampadari, l’atmosfera che mescola turisti e intellettuali: tutto qui parla di un’epoca in cui Lisbona era un laboratorio culturale in fermento. Ci sediamo per un caffè all’interno, tra mosaici e specchi che riflettono un passato elegante. Il caffè arriva forte e intenso, e non posso fare a meno di pensare a quanto Pessoa amasse sostare qui, osservando la vita che scorreva lungo il Largo do Chiado. Forse in quei momenti la sua inquietudine trovava un po’ di pace, addolcita dal rumore dei cucchiaini e dal vociare intorno.

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Il Chiado ci accoglie così: con la sua eleganza bohémien, con negozi storici come A Vida Portuguesa, pieni di scatole colorate e packaging d’epoca, e con angoli che sembrano usciti da un romanzo. Passo una buona mezz'ora in contemplazione di ceramiche, saponette e profumi e la magnifica selezione di tessili per la casa tutti fatti in Portogallo tra i quali è difficilissimo scegliere.

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Passeggiando tra scaffali e caffè, mi rendo conto che Pessoa non è solo un autore che leggo, ma una presenza che si insinua tra le strade di Lisbona. Ogni luogo che tocchiamo – la libreria, il caffè, persino una targa su un muro – diventa un frammento del suo universo interiore. Pessoa ha scritto che “vivere è essere un altro”, e in questa città mi pare che l’identità stessa si moltiplichi: turista e viaggiatore, madre e sognatrice, lettrice e camminatrice, tutte queste versioni di me convivono senza contraddirsi.

Forse è questo che Lisbona sa fare meglio di ogni altra città: rifletterci come in uno specchio mutevole, rivelando parti di noi che non pensavamo di avere. Ed è per questo che qui Pessoa non appare distante o intoccabile, ma vicino, compagno di viaggio silenzioso che ancora ci accompagna tra i vicoli, i caffè, i sogni non detti.
 
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